Dicembre 2003.
Bea.
Solo istanti,
d’occhi neri
lontani e assenti,
solo sguardo
dissimulato, attento
come la pena, il rigore,
il silenzio;
solo mani
su una pelle
di brividi e cicatrici;
solo povertà inestimabile,
Bea,
solo tempo che cingo
come preziosa merce
senza roba e deperimenti;
solo questo,
e per la vita
e il sentimento che va oltre.
Manilo Busalacchi
Monday, December 15, 2003
Thursday, November 13, 2003
13 Novembre 2003
Tuoni, fiamme e macchie rosse a strisce.
Tutto tuona
e perde i sensi;
l'abbaglio lesto
a spolverare sguardi sorpresi.
Occhi neri
come spranghe calate dal vuoto
passi incerti
spazzati, via!
su strade roventi,
vie del sud,
quanti corpi stesi
tra incerti dove, e perché;
per i corridoi del mondo
quante mani ancora calde,
di calzoni a bande rosse,
vorremmo tenere nelle nostre
di mani,
strette alla fronte
a sbriciolare le torri del terrore.
Nel pozzo,
giù per le viscere,
nel ventre,
conterremo ogni parto dolente
accecato o eliso
per i nove mesi dell'infinito.
Manilo Busalacchi
Tuoni, fiamme e macchie rosse a strisce.
Tutto tuona
e perde i sensi;
l'abbaglio lesto
a spolverare sguardi sorpresi.
Occhi neri
come spranghe calate dal vuoto
passi incerti
spazzati, via!
su strade roventi,
vie del sud,
quanti corpi stesi
tra incerti dove, e perché;
per i corridoi del mondo
quante mani ancora calde,
di calzoni a bande rosse,
vorremmo tenere nelle nostre
di mani,
strette alla fronte
a sbriciolare le torri del terrore.
Nel pozzo,
giù per le viscere,
nel ventre,
conterremo ogni parto dolente
accecato o eliso
per i nove mesi dell'infinito.
Manilo Busalacchi
Saturday, October 04, 2003
Saturday, September 20, 2003
20 Settembre 2003
Oblio
mesto candore
dietro querce smemore
d’oboli umani,
quando pervade la mente
la quiete d’obbligo
atterra e ci china,
riversa uno sguardo silente
e batte l’infame tocco della disfatta,
noi s’innalza a condono il capo
e d’ogni tetro si ricade spioventi
siamo fango giù dal colare
e allora ci innalziamo furenti
scagliati tra destino e fato
sferziamo il colpo, nell’effigie suadenti.
Manilo
(da: Il Club del Sabato)
Oblio
mesto candore
dietro querce smemore
d’oboli umani,
quando pervade la mente
la quiete d’obbligo
atterra e ci china,
riversa uno sguardo silente
e batte l’infame tocco della disfatta,
noi s’innalza a condono il capo
e d’ogni tetro si ricade spioventi
siamo fango giù dal colare
e allora ci innalziamo furenti
scagliati tra destino e fato
sferziamo il colpo, nell’effigie suadenti.
Manilo
(da: Il Club del Sabato)
Friday, September 19, 2003
Mi concentro, sto fermo, buono e tranquillo, chiudo queste quattro linee, mura d'una stanza dopo bordate da lenire. Il massimo dell'intimo si sarebbe stato l'altra stanza, la precedente, tant'è che lì nel pieno di processi eputarivi si compiono i maggiori estri d'arte. Silenzio profondo e meditabondo, angolo franco imperscrutabile, luogo alto nelle basseze umane. Ma ho ritratto il fiato in un sol colpo, e al centro ho scrutato gli angoli, quattro, ma novanta nei gradi. C'è freddo, forse manca il clima, Pietro, per ora mi stendo, poi non so, vedremo.
da: Il Club del Sabato
da: Il Club del Sabato
Sunday, September 14, 2003
14 Settembre 2003
Gesso.
Questo gesso tra le mani
conservo,
colori in maschera
di forme incerte;
uno sguardo dipinto
che s’agita e riprende.
I lobi odono
tenzoni certe ai due,
forte tu, e non lo mostri
sei, e ti ho visto.
Ergiti, basta un guizzo
poca polvere
ma non aspetto cenni,
l’oltreverso solo immortale.
Guidami,
taciturno cerco scarne voci
nel solco di illusioni
e avi al mio cospetto
dove volgo ogni dì incerto.
Manilo Busalacchi
Gesso.
Questo gesso tra le mani
conservo,
colori in maschera
di forme incerte;
uno sguardo dipinto
che s’agita e riprende.
I lobi odono
tenzoni certe ai due,
forte tu, e non lo mostri
sei, e ti ho visto.
Ergiti, basta un guizzo
poca polvere
ma non aspetto cenni,
l’oltreverso solo immortale.
Guidami,
taciturno cerco scarne voci
nel solco di illusioni
e avi al mio cospetto
dove volgo ogni dì incerto.
Manilo Busalacchi
Saturday, September 13, 2003
Craving
Tra la summe è la summa. Ma sto indagando il sol pensiero. Di altro non si disserta, questa trincea mi vede assorto. Accumuliamo sabbia per costruire castelli labili al tempo, aggiungiamo acqua per consolidare ciò che è destinato a svanire. Disillusi, non ci fermiamo, sfaldiamo l’arenile e formiamo cumuli con cui imbottire sacchi per creare argini davanti ogni finestra; poi cerchiamo l’arma e apostrofiamo l’armato. “Dopo le grandi tragedie finiamo sempre per soffiarci il naso”.
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Carità
In ciò che mi mossi non ho chiesto il perché. Da porta a porta il corso d’acqua ridiscende ancora.. Quello che immoliamo all’istante scompare infausto. Dietro tutto c’è un’effige sfigurata in cui il bello è la parvenza in mostra. Celo perché poco importa il visibile, cerco codici per capire e buche per proteggere il pudore. Ogni mano tesa ha il suo carnefice; ogni braccio proteso ha un losco intento. Non v’è aria che costringe lo sguardo, su questo scarno principio ci potremmo basare.
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Speranza
Quella che un dì trasudava dalla faccia di mille avventori; tradita, ma lo sapevamo già, oltraggiata, ma in ciò ci siamo armati e resistiamo. Per eccesso di prudenza non ci osserviamo, a volte tardano anche le parole e a qualunque confronto risultiamo immuni, perché puri sconosciuti. Io so, però, quanti sono, e quali: semplici, timide presenze, sciatte; forti, però, coriacei garantiti dalla vita che nostro malgrado ci ha forgiati. In sonno scrivo, le mia braccia sorreggono la mente, che non si sfalda.
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Fede
Oppresso, perché aspetto ma non attendo. Che non si capisca l’inverso. In cosa, e perché, trascendere? Aspetto Damocle e spada come l’ultimo dei miei momenti, come fosse il più bello, come se fosse niente o a volte i sogni. Sperare, ma a polvere asciutta, come vuole la saggezza dell’ebreo. Non cerco vie di fuga nei gironi infernali: esistono, meglio andare oltre per non restare rena d’Acheronte. Assieme, tutti, una mano o una parole, questo, Forse…
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Pigrizia
Perché se nell’uno v’è tutto, in ciò sta l’universo; che scorre verso l’uno e stride verso l’infinito, suo acerrimo nemico. L’acqua è memoria, e i gorghi, i moti d’onde, sono sperdenti. Battelli ebri, sperdiamo i bardotti, perdiamo coscienza adagiando membra per carpire l’oltre. Esausti inermi, come pochi, come tutti. Ciò che ha stremato la mente è lento e vizioso, non c’è corpo altrettanto debole, né parabole a conforto. Dovrei spiegare, alcuni aspettano il sorriso; io non ho tempo: sorbisco una marea.
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Golosità
Famelico quando odo il transito, della Sua voce, di piccoli gesti, così che inosservando qualcuno sorride e io simulo per riguadagnarmi. Fagocito, a volte tasti o parole, ma più spesso silenzi incontrollabili. Progetto, pianifico, come ogni umano, e sono bravo, e organizzo, ma i silenzi incombono, quelli arrivano; e faccio incetta, a volte; altre vorrei sfuggirvi, affrancarmi. Ho imparato a convivere con ogni anima silente; ho capito, e devo aspettare.
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Lussuria
Ogni giorno un po’, forse per sfidare il Fato o per sentirsi umani a latere. Ciò che ci assimila alla terra, o ad animali con proboscide e unicorno, questo, ci rende immortali, perché il sol soldo d’un minuto è l’otre suadente d’un esistenza. Difficile, crederlo o pensarlo, perché siamo maschere e modelli, come dire uomini e donne, e a questo dobbiamo attenerci come il ritmo nella musica o le tegole che sempre ridiscendono. Io che tendo, ma so dell’infido come del soave, vorrei sciogliermi e divenire scroscio d’acque.
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Ira
Perché piccoli siamo e d’eco amiamo apparire. Grandi come macigni di cartapesta, alziamo il grido a un cielo incombente. Così ci carichiamo d’impeto e traiamo merito dal nostro ego. Eserciti silenti costretti a simulare per rivendicare l’esistenza, per non essere travolti dal numero e dal suo calcolo. Oltre cinte di pietra sorda aleggiano passioni caduche, oltraggiate dalla vita, da suoni e rombi di motori potenti. Rendimi chino Tempo, per abbracciarne un orda e sentirne le magre ossa!
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Invidia
Chi può, chi non sa, chi non ne ha voglia, chi potrebbe; osservo tutti e mi rivedo altrove. Non sono dove vorrei ne dove non vorrei essere; è quest’essere latente che annichilisce e che ogni dì porta altrove pur non muovendo un passo. Non bramo, perché questa è selva, è luogo oscuro e mero cammino per ogni operoso destino, cosciente o meno che sia. L’unico è Dio, spettatore indolente delle nostre danze, il solo riverso nell’alto del nostro baratro, detrattore d’intenti, per cui motore del tempo e delle sue finzioni.
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Avarizia
Non dispenso, tengo per me magie e fantasie; che certe luci possa ricordarle e mai rimpiangerle spente. Nelle segrete dei pensieri si lavora forzati dell’anima, costretti da colpe ancestrali alla catarsi . Non ci sono notti, solo logorii lenti e insensati; e lo svegliarsi e sorridere di poche righe e un sembiante incipit. Non c’è scherno, solo compiacimento, nemmeno scuro e propensioni. Affogo, a volte, ma non caccio mai l’urlo, quello che qualcuno aspetta da tempo e che codardo custodisco.
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Superbia
E non trovo, e non ritrovo; forse gli occhi sono mutati. I processi, le culture, si sono alternate e mi ritrovo altrove ad osservare distante ogni movenza, e tra esse anche quella mal celata dell’immobilità. Uno specchio per osservarmi e per sbirciare riflessa un’immagine che drena da una finestra, attigua come tutto quello che sta di fronte. Svicolo e muto pelle per sopravvivere; distante piango orme regresse e sfaldate nel fango povero d’acqua e polverizzato da fronde d’aria.
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da: Il Club del Sabato
Tra la summe è la summa. Ma sto indagando il sol pensiero. Di altro non si disserta, questa trincea mi vede assorto. Accumuliamo sabbia per costruire castelli labili al tempo, aggiungiamo acqua per consolidare ciò che è destinato a svanire. Disillusi, non ci fermiamo, sfaldiamo l’arenile e formiamo cumuli con cui imbottire sacchi per creare argini davanti ogni finestra; poi cerchiamo l’arma e apostrofiamo l’armato. “Dopo le grandi tragedie finiamo sempre per soffiarci il naso”.
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Carità
In ciò che mi mossi non ho chiesto il perché. Da porta a porta il corso d’acqua ridiscende ancora.. Quello che immoliamo all’istante scompare infausto. Dietro tutto c’è un’effige sfigurata in cui il bello è la parvenza in mostra. Celo perché poco importa il visibile, cerco codici per capire e buche per proteggere il pudore. Ogni mano tesa ha il suo carnefice; ogni braccio proteso ha un losco intento. Non v’è aria che costringe lo sguardo, su questo scarno principio ci potremmo basare.
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Speranza
Quella che un dì trasudava dalla faccia di mille avventori; tradita, ma lo sapevamo già, oltraggiata, ma in ciò ci siamo armati e resistiamo. Per eccesso di prudenza non ci osserviamo, a volte tardano anche le parole e a qualunque confronto risultiamo immuni, perché puri sconosciuti. Io so, però, quanti sono, e quali: semplici, timide presenze, sciatte; forti, però, coriacei garantiti dalla vita che nostro malgrado ci ha forgiati. In sonno scrivo, le mia braccia sorreggono la mente, che non si sfalda.
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Fede
Oppresso, perché aspetto ma non attendo. Che non si capisca l’inverso. In cosa, e perché, trascendere? Aspetto Damocle e spada come l’ultimo dei miei momenti, come fosse il più bello, come se fosse niente o a volte i sogni. Sperare, ma a polvere asciutta, come vuole la saggezza dell’ebreo. Non cerco vie di fuga nei gironi infernali: esistono, meglio andare oltre per non restare rena d’Acheronte. Assieme, tutti, una mano o una parole, questo, Forse…
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Pigrizia
Perché se nell’uno v’è tutto, in ciò sta l’universo; che scorre verso l’uno e stride verso l’infinito, suo acerrimo nemico. L’acqua è memoria, e i gorghi, i moti d’onde, sono sperdenti. Battelli ebri, sperdiamo i bardotti, perdiamo coscienza adagiando membra per carpire l’oltre. Esausti inermi, come pochi, come tutti. Ciò che ha stremato la mente è lento e vizioso, non c’è corpo altrettanto debole, né parabole a conforto. Dovrei spiegare, alcuni aspettano il sorriso; io non ho tempo: sorbisco una marea.
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Golosità
Famelico quando odo il transito, della Sua voce, di piccoli gesti, così che inosservando qualcuno sorride e io simulo per riguadagnarmi. Fagocito, a volte tasti o parole, ma più spesso silenzi incontrollabili. Progetto, pianifico, come ogni umano, e sono bravo, e organizzo, ma i silenzi incombono, quelli arrivano; e faccio incetta, a volte; altre vorrei sfuggirvi, affrancarmi. Ho imparato a convivere con ogni anima silente; ho capito, e devo aspettare.
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Lussuria
Ogni giorno un po’, forse per sfidare il Fato o per sentirsi umani a latere. Ciò che ci assimila alla terra, o ad animali con proboscide e unicorno, questo, ci rende immortali, perché il sol soldo d’un minuto è l’otre suadente d’un esistenza. Difficile, crederlo o pensarlo, perché siamo maschere e modelli, come dire uomini e donne, e a questo dobbiamo attenerci come il ritmo nella musica o le tegole che sempre ridiscendono. Io che tendo, ma so dell’infido come del soave, vorrei sciogliermi e divenire scroscio d’acque.
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Ira
Perché piccoli siamo e d’eco amiamo apparire. Grandi come macigni di cartapesta, alziamo il grido a un cielo incombente. Così ci carichiamo d’impeto e traiamo merito dal nostro ego. Eserciti silenti costretti a simulare per rivendicare l’esistenza, per non essere travolti dal numero e dal suo calcolo. Oltre cinte di pietra sorda aleggiano passioni caduche, oltraggiate dalla vita, da suoni e rombi di motori potenti. Rendimi chino Tempo, per abbracciarne un orda e sentirne le magre ossa!
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Invidia
Chi può, chi non sa, chi non ne ha voglia, chi potrebbe; osservo tutti e mi rivedo altrove. Non sono dove vorrei ne dove non vorrei essere; è quest’essere latente che annichilisce e che ogni dì porta altrove pur non muovendo un passo. Non bramo, perché questa è selva, è luogo oscuro e mero cammino per ogni operoso destino, cosciente o meno che sia. L’unico è Dio, spettatore indolente delle nostre danze, il solo riverso nell’alto del nostro baratro, detrattore d’intenti, per cui motore del tempo e delle sue finzioni.
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Avarizia
Non dispenso, tengo per me magie e fantasie; che certe luci possa ricordarle e mai rimpiangerle spente. Nelle segrete dei pensieri si lavora forzati dell’anima, costretti da colpe ancestrali alla catarsi . Non ci sono notti, solo logorii lenti e insensati; e lo svegliarsi e sorridere di poche righe e un sembiante incipit. Non c’è scherno, solo compiacimento, nemmeno scuro e propensioni. Affogo, a volte, ma non caccio mai l’urlo, quello che qualcuno aspetta da tempo e che codardo custodisco.
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Superbia
E non trovo, e non ritrovo; forse gli occhi sono mutati. I processi, le culture, si sono alternate e mi ritrovo altrove ad osservare distante ogni movenza, e tra esse anche quella mal celata dell’immobilità. Uno specchio per osservarmi e per sbirciare riflessa un’immagine che drena da una finestra, attigua come tutto quello che sta di fronte. Svicolo e muto pelle per sopravvivere; distante piango orme regresse e sfaldate nel fango povero d’acqua e polverizzato da fronde d’aria.
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da: Il Club del Sabato
Monday, September 08, 2003
Tuesday, August 05, 2003
5 Agosto 2003.
Consorte.
Dannata vetrina,
tra noi lo specchio
e pensule insegne
inclini al lato.
Ignobile pallore,
quel Che mostri e col lustro inganna
finto castello, riflesso volto all’anta.
Eclisse, mia infame consorte
al verso concedo
atti di confessione a pagine svogliate:
due pieghe d’addome
accenni d’aria scarna
e gorghi di sudore.
Cedo il passo all’aspettare
nei giorni degli echi ridondi,
tra fune e pareti
e il capo verso,
assaporo sensazioni
libere di briglie e piedi,
vuoto, come l’assenza d’ogni carnevale.
Manilo
Consorte.
Dannata vetrina,
tra noi lo specchio
e pensule insegne
inclini al lato.
Ignobile pallore,
quel Che mostri e col lustro inganna
finto castello, riflesso volto all’anta.
Eclisse, mia infame consorte
al verso concedo
atti di confessione a pagine svogliate:
due pieghe d’addome
accenni d’aria scarna
e gorghi di sudore.
Cedo il passo all’aspettare
nei giorni degli echi ridondi,
tra fune e pareti
e il capo verso,
assaporo sensazioni
libere di briglie e piedi,
vuoto, come l’assenza d’ogni carnevale.
Manilo
Friday, August 01, 2003
Monday, July 07, 2003
Sunday, July 06, 2003
6 Luglio 2003
Rettangolo.
Al fronte
imbraccio radio ed arma,
l’una nella spalla
in ascolto,
l’altra nella cintola
affilata e scura.
Nel rettangolo della notte
odo veglia e vocio,
tre anime in schiera
contendono
sedie riverse su tre lati,
dal quarto sorge una lama
simbolo e vaghezza.
Emerse dal dormiveglia,
svaniscono in astio,
il mattutino affiora
svelando ombre timorose
vana lega alla luce.
Tu annoti e attendi,
ritagli simboli,
incline all’essere
avvezza al vivere.
Manilo.
Rettangolo.
Al fronte
imbraccio radio ed arma,
l’una nella spalla
in ascolto,
l’altra nella cintola
affilata e scura.
Nel rettangolo della notte
odo veglia e vocio,
tre anime in schiera
contendono
sedie riverse su tre lati,
dal quarto sorge una lama
simbolo e vaghezza.
Emerse dal dormiveglia,
svaniscono in astio,
il mattutino affiora
svelando ombre timorose
vana lega alla luce.
Tu annoti e attendi,
ritagli simboli,
incline all’essere
avvezza al vivere.
Manilo.
Friday, June 27, 2003
27 Giugno 2003
Aspetto
Eppure aspetto
riverso
nel trono delle speranze.
Il capo chino
ciondola intorpidito,
aspetto
segnali vani.
Mi ridesto
sempre
ed il sogno è lo stesso,
volti i dì
passo
nel mestiere solitario
d’aspettare e sentire.
Disillusi e offesi
boccheggiamo esausti
nella riva e tra le acque
dalla vita in su
e cielo, cielo,
dalle braccia in giù.
Manilo.
Aspetto
Eppure aspetto
riverso
nel trono delle speranze.
Il capo chino
ciondola intorpidito,
aspetto
segnali vani.
Mi ridesto
sempre
ed il sogno è lo stesso,
volti i dì
passo
nel mestiere solitario
d’aspettare e sentire.
Disillusi e offesi
boccheggiamo esausti
nella riva e tra le acque
dalla vita in su
e cielo, cielo,
dalle braccia in giù.
Manilo.
Friday, May 23, 2003
23 Maggio 2003.
Falcone.
“Scusa”,
e l’asfalto tuona,
tutto s’azzera
il folgore acceca
e spazza via.
“Scusa”,
l’ultima parola,
poi un volo senza fine
d’una scheggia a morte.
Cristo umano Giovanni,
sospeso a morte.
Lo sguardo disperso
e un blocco motore nel ventre.
Attorno, terra, solco e fuoco;
fumo e polvere dell’attacco sferzato.
Rotea il capo, il pensiero si esaurisce
per sempre celato, e d’ora in poi donato.
Per ogni vicolo, a Capaci,
è indelebile il puzzo del tritolo,
e pervaderà in eterno l’eco del boato,
testimone il guardrail rosso maculato.
Manilo.
Falcone.
“Scusa”,
e l’asfalto tuona,
tutto s’azzera
il folgore acceca
e spazza via.
“Scusa”,
l’ultima parola,
poi un volo senza fine
d’una scheggia a morte.
Cristo umano Giovanni,
sospeso a morte.
Lo sguardo disperso
e un blocco motore nel ventre.
Attorno, terra, solco e fuoco;
fumo e polvere dell’attacco sferzato.
Rotea il capo, il pensiero si esaurisce
per sempre celato, e d’ora in poi donato.
Per ogni vicolo, a Capaci,
è indelebile il puzzo del tritolo,
e pervaderà in eterno l’eco del boato,
testimone il guardrail rosso maculato.
Manilo.
Monday, February 17, 2003
Lunedì, 17 febbraio 2003 - A: <>
Forse è troppo verde in me il ricordo dell'isola, la mia, che lentamente svanisce oltre la foschia di un mattino. Nei giorni precedenti sentivo sulla mia pelle i brividi e l'ansia di una città che stava per svanirmi sotto gli occhi. Ero impotente, non sapevo cosa fare, riempivo da tempo le ore d'un vagare confuso, ho agito quindi d'istinto e sono fuggito. Mi sono lasciato alle spalle tutto, letteralmente, perché era l'unico modo per uscire da una situazione asfissiante che avrebbe fatto tabula rasa di me e della mia indole.
Amo Palermo, la terra in cui ho condotto tante battaglie e che mi ha macchiato indelebilmente con il sangue che a rivoli è sgorgato da quegli uomini, nostri simili, trucidati barbaramente da mafia e Stato. Amo quelle luci, sempre troppo tenui e gialle, e quell'atmosfera ironicamente rarefatta che solo al sud, dislocato nei sentimente più che nelle geografie, si può ritrovare.
Vivo come un vecchio nostalgico delle sue origini, ma con la vitrea consapevolezza di esserne distante, fisicamente e mentalmente. Non so se farei mai più ritorno nell'isola a tre punte, quando si parte è meglio non guardarsi mai più alle spalle. Sarebbe un dolore troppo grande e gratuito.
Il mio viaggio, però, sembra appena iniziato, perchè sono partito dalla Sicilia ma non sono mai approdato da nessuna parte. Lo sai, <>, non sento il Veneto come mio, come la mia nuova patria, e continuo a vagare come in un limbo eternamente sospeso.
Quanti giorni ho pianto da solo, senza che nessuno se ne fosse mai accorto, quante volte mi sono chiesto dove stava il senso delle cose e se ho diritto di fare del male agli altri, come è successo.
Lo ribadisco ancora, mi sento inadeguato, raramente trovo affinità in qualcosa. Forse vivo di illusioni, che è un gioco a rilancio la cui posta presto diviene inaccettabile.
Manilo
Amo Palermo, la terra in cui ho condotto tante battaglie e che mi ha macchiato indelebilmente con il sangue che a rivoli è sgorgato da quegli uomini, nostri simili, trucidati barbaramente da mafia e Stato. Amo quelle luci, sempre troppo tenui e gialle, e quell'atmosfera ironicamente rarefatta che solo al sud, dislocato nei sentimente più che nelle geografie, si può ritrovare.
Vivo come un vecchio nostalgico delle sue origini, ma con la vitrea consapevolezza di esserne distante, fisicamente e mentalmente. Non so se farei mai più ritorno nell'isola a tre punte, quando si parte è meglio non guardarsi mai più alle spalle. Sarebbe un dolore troppo grande e gratuito.
Il mio viaggio, però, sembra appena iniziato, perchè sono partito dalla Sicilia ma non sono mai approdato da nessuna parte. Lo sai, <>, non sento il Veneto come mio, come la mia nuova patria, e continuo a vagare come in un limbo eternamente sospeso.
Quanti giorni ho pianto da solo, senza che nessuno se ne fosse mai accorto, quante volte mi sono chiesto dove stava il senso delle cose e se ho diritto di fare del male agli altri, come è successo.
Lo ribadisco ancora, mi sento inadeguato, raramente trovo affinità in qualcosa. Forse vivo di illusioni, che è un gioco a rilancio la cui posta presto diviene inaccettabile.
Manilo
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