Sunday, April 30, 2000

domenica 30 aprile 2000 22.37 – A baglioniml@egroups.com
OGGETTO: Re: Equazioni o algoritmi?...Del marketing



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Quella dei cantastorie è una tradizione che si perde nella notte dei tempi. Musici del popolo da sempre hanno fatto della narrazione di storie vere od inventate pane quotidiano.
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La figura del cantastorie, solo a brevi tratti è assimilabile e paragonabile a quella del cantautore.
Il cantastorie, tramite le sue mete itineranti, assolveva alla funzione di diffusore di notizie all'interno di una società ancora non incline, per povertà di mezzi ed intenti, all'informazione di massa; così, ispirandosi alla realtà, musicava le sue storie, romanzandole secondo ben precise esigenze sceniche; la trasmissione delle esperienze era, spesso, esclusivamente orale e tipicamente si tramandava da padre in figlio.
Il cantautore, figura moderna, sviluppa attraverso un'evoluzione di qualche decennio ambizioni da artista; non si limita a comunicare sensazioni, ma studia per relazionare perfettamente musiche e parole, non limitandosi ad accoppiarli, ma rendendoli interdipendenti secondo regole assimilabili a modelli matematici.
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Mi trovi d'accordo solo in parte o meglio sole se concordi con me che
solo oggi, la canzone ha assunto lo squallido ruolo di "prodotto". L'esperienza degli anni 70, che si collocava sullo sfondo dell'egemonia esercitata dalle case discografiche (i veri parassiti) ci ricorda che la musica "del popolo" è sempre stata prima di tutto necessità di espressione. A rovinare tutto come sempre è giunta la sete di guadagno.

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Di frequente uso la parola "prodotto", in riferimento al lavoro dei cantautori, perché solitamente è frutto della collaborazione di una vera equipe che utilizza regole simili ad altre forme di comunicazione; l'abbilità spesso consiste nella capacità di saperle applicare al contesto sociale e culturale di riferimento.
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(Sono tanti gli esempi di cantautori italiani, giusto per muoverci nel nostro
ambito, che hanno fatto del limite fisico, che la natura gli ha imposto, una peculiarità tale che li ha proiettati alla ribalta. La musica leggera non ha l'ambizione di fare "arte pura", ma di comunicare con qualsiasi mezzo, anche il meno ortodosso.) Puoi chiarirmi questo concetto ?

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Consideriamo l'incisività con cui un cantautore del calibro di Lucio Battisti si è imposto nel panorama musicale italiano, fino a ridefinirne alcuni tra i più importanti canoni del linguaggio moderno italiano; in particolare soffermiamoci su due punti ben precisi: le sue caratteristiche vocali e le scelte musicali. Le capacità vocali di Battisti sono oggettivamente limitate, eppure di quella voce non limpida, tonalmente poco estesa, ne ha fatto una forza espressiva, perché facendo vibrare le corde vocali in modo tecnicamente poco corretto invece è riuscito ad essere estremamente comunicativo, in quanto diretto, più vicino alla nostra realtà di ogni giorno; direi che è sceso dal piedistallo che, invece, sostiene i cantanti lirici.
La sua musica a tratti è scarna, eppure estremamente attuale e godibile, in quanto l'ha spogliata di tutte le componenti tipiche delle mode contingenti, consentendole di solcare i confini del suo tempo tramite l'utilizzo di un linguaggio che fonda la sua forza nella semplicità, non confinabile in un solo contesto.
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Io penso che tale concetto possa valere solo per il decennio appena
trascorso. Quello di transizione, quello degli anni 80 per intenderci è riuscito a
produrre qualcosa di buono soltanto tra l'84 e l'88. Circa l'algoritmo di cui parli credo che appartenga più al mondo del marketing che della canzone.
E' anche vero che esistono al mondo persone che sanno endersi anche da sole ma restano casi isolati.

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Il nocciolo della questione è proprio questo, in quanto non è possibile scindere il mondo della canzone da quello del marketing, sono perfettamente complementari e si intersecano in intenti comuni.
Cantautori che hanno seguito il proprio percorso artistico, scorporandolo dalle logiche di mercato, sono veramente pochi, e, tra questi, prenderei ancora ad esempio Lucio Battisti, o almeno il Lucio della seconda fase, quello più maturo e schivo.
Da notare che Battisti ricorre in più di un mio esempio, e non è affatto casuale, di sicuro è una figura cardine della canzone italiana.
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Conta l'intensità dell'emozione che si riesce a far propria attraverso l'ascolto di una canzone. Il concetto di vero o falso è relativo come non assoluto è quello del "maggiore" o "minore". Siamo noi a dar peso ad un uomo o ad un concetto.
Siamo noi a stabilire il "prezzo" delle nostre emozioni.

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Considero un'arte "vera" o "falsa" utilizzando un solo parametro: il movente, cioè quanto sia stato sincero l'artista nel concepirla diversificando, quindi, un prodotto funzionale a logiche esterne, rispetto alla libera espressione di se stesso e del mondo che lo circonda.
Con "maggiore" o "minore" indico ciò che normalmente viene usato per distinguere, ad esempio, musica classica da leggera, o pittura da fotografia. Concordo con te, quindi, nel sostenere che in senso assoluto non è possibile dividere ciò che è maggiore da ciò che è minore, se mai esistesse tale distinzione.

ombra

Saturday, April 29, 2000

sabato 29 aprile 2000 17.54 - A: baglioniml@egroups.com
Oggetto: Cantautori e musica leggera, equazioni o algoritmi?


Storicamente la figura del cantautore nasce dall'esigenza, del mondo che gravida attorno alla musica leggera, di affrancarsi dall'immagine diffusa di surrogato e parassita rispetto alla musica colta.
Il cantante, tramite la personale realizzazione di tutti gli aspetti di una canzone, diventa autore di se stesso, introducendo composite variabili rispetto alla musica classica, in cui, abitualmente, la mente creatrice è scorporata dal braccio esecutore.
Il nuovo mezzo espressivo diviene, contemporaneamente, per alcuni aspetti più potente e per altri limitante.
Il cantautore immagina musica, testi ed esecuzione, in funzione di se stesso, vere e proprie pennellate sulle sue capacità, inclini all'ambito in cui vuol far "girare" il proprio prodotto/canzone; questo gli consente di dare il meglio, e di assumersi l'onere, nel bene e nel male, della riuscita finale.
Secondo l'attuale andamento culturale della nostra società, questa "genuinità" è un bene, ma visto secondo un'ottica più vasta è riducente: La musica classica, ragionando secondo modelli generici, è concepita da "professionisti assoluti", che consci delle proprie capacità, realizzano esclusivamente quello in cui sono specializzati; non compone pensando alle proprie caratteristiche esecutive, ma per chiunque, in una sorta di sfida, si voglia cimentare nell'interpretazione.
Sono tanti gli esempi di cantautori italiani, giusto per muoverci nel nostro ambito, che hanno fatto del limite fisico, che la natura gli ha imposto, una peculiarità tale che li ha proiettati alla ribalta. La musica leggera non ha l'ambizione di fare "arte pura", ma di comunicare con qualsiasi mezzo, anche il meno ortodosso. L'incipit diviene: "oltrepassare la barriera dell'indifferenza, solleticando e stimolando l'ascoltatore".
I cantautori, a volte inconsciamente, sono tra i più abili studiosi della scienza della comunicazione e, per ogni lavoro, utilizzano dei criteri selettivi paragonabili ad un'equazione (o come recentemente qualcuno ha detto: ad un algoritmo) laddove le variabili sono i gusti del pubblico e le mode, che fanno tendenza.
La cosa che da tempo mi chiedo è: che valore, in quell'equazione, daranno i cantautori alle costanti, e fino a che punto sono tali?
Penso che per esprimersi ogni mezzo sia lecito finché, però, non venga violata la barriera della "genuinità".
Personalmente non fisso come prerequisito dell'arte la caratteristica, se mai esiste, di essere "maggiore" o "minore", semmai di essere "vera" o "falsa"; se la canzone è risultante dal prevedibile grado di consenso del pubblico quanto è espressione, incontaminata e sincera, del cantautore?

ombra

(che nel fumo, citato da Giò, immerge i suoi pensieri)

Wednesday, April 26, 2000

mercoledì 26 aprile 2000 23.10 - Mail a B.M.
Oggetto: Naturali e nostri



Caro B.,
riprendo il tuo esempio del pendolo tra due estremi in quanto fortemente esplicativo.
All'interno di quel pendolo, e del suo moto, intravedo stilizzato il dilemma dell'uomo, l'oscillazione tra due condizioni, tanto opposte quanto, tra loro, riflesse e speculari. "To be or not to be" intonava Shakespeare nel vano tentativo di ottenere, dalla perpetua sinuosità del tormentone, la soluzione suprema dell'esistenza e il movente delle nostre movenze, il tentativo primo di fugare ogni dubbio.
Non sono così ingenuo, non più, da ritenere che ogni condizione sia riassumibile in due estremi, è un inganno, è il tentativo di ridurre a modelli matematici, quindi perfetti, ciò che perfetto non è, per natura e propensione.
Collochiamo ad un estremo il carattere dell'Uomo, nell'altro la personalità, e adorniamo lo spazio con le "maschere" possibili che tra essi intercorrono; ora lasciamo oscillare la sua propensione istantanea; lo scenario aperto è una continua commedia che lo costringe ad interpretare il "pupo" che si è creato e di cui la società muove le fila. Tuttavia c'è un momento, uno solo, una sorta di punto improprio, in cui le due dimensioni antitetiche e parallele si avvicinano, fino quasi a sfiorarsi, in cui il pendolo sfugge ad ogni controllo, sia fisico che metafisico, in cui siamo "naturali e nostri"; è il "sogno", dimensione illusoria ma tangibile, ultimo baluardo prima del nulla.
Credo che bisogna appiattire la nostra vita, affinché tutto non si appiattisca: Ha più possibilità di trovare stimoli ed entusiasmi l'ultimo dei reietti piuttosto che il più nobile dei principi; perché l'Uomo, per natura, non si accontenta; raggiunto il suo "castello" cade il mito, e la nuova meta diventa il cielo, finche raggiunto perde le sue tinte, e così via all'infinito.
Troverò pace, se mai la troverò, quando avrò veramente accettato la mia esigua dimensione e condizione umana; quando accennerò ad un tuffo verso l'infinitamente piccolo, specchio dell'immenso.

Manilo.

Monday, April 17, 2000

lunedì 17 aprile 2000 23.58 - A baglioniml@egroups.com
Oggetto: Sogni


"...gli uomini che pensano si stancano di tutto, perché tutto cambia. Gli uomini che passano lo provano, perché cambiano assieme a tutto..."
F.P.
"...le cose stan cambiando mentre ci cambiano..."
C.B.
"...Perché non potrebbe essere l'unica cosa reale in tutto questo, il marinaio, e noi e tutto il resto solo un suo sogno?..."
F.P.
"...navigai nel grande calice del sonno e del mistero e pensai che potremmo essere sogni di qualcuno chissà mai noi tante tessere di un firmamento bruno..."
C.B.

Ascoltando VSCDT mi è sembrato subito chiaro che la stesura dei testi era somigliante alla struttura di un labirinto dall'andamento a spirale; visioni contorte, dense di atmosfere tendente al mistico, ricamano quasi ogni passo, conferendo a tutto l'assieme una potenza espressiva tipicamente simbolista.

Memore degli incalzanti toni lirici di Fernando Pessoa, riesumo, dallo strato di polvere sovrastante, un suo scritto celebre: "Il marinaio". Le analogie sono tante, e, di queste, sopra ne ho riportate solo un paio; non ci è dato sapere se Claudio abbia affinato dei concetti molto simili, o se si sia direttamente ispirato a loro.

La dicotomia tra "apparenza illusoria" - tutto ciò che fa parte del "nostro mondo", visto attraverso le convenzioni - e "verità occulta" - la realtà assoluta, occulta in quanto non assimilabile - è motivo di travaglio interiore sia per Claudio che per Pessoa; entrambi tentano di sfuggire all'oblio attraverso il sogno, o il viaggio di cui a tratti è metafora; quindi ritornano alla vita riappropriandosi del proprio destino.

Se la memoria non mi tradisce, Claudio ha scritto una canzone dal titolo "Annabel Lee", ispirandosi ad una poesia di Edgar Allan Poe, di cui lo stesso Pessoa è un attento estimatore e traduttore; insomma gli elementi ci sono, e mi portano a pensare che il viaggio stilizzato nelle canzoni di VSCDT sia rivolto alla riscoperta del passato. Il viaggio verticale è capace di far riemergere le orme precedentemente lasciate, scavalcando l'occlusione che il raggio di curvatura della terra oppone alla nostra vista, ridonando ai nostri trascorsi nuova luce.

Le musiche abbinate ai testi, poi, altro non sono che l'applicazione di quelle "filosofia" in campo sonoro; la riscoperta della "vecchia" tecnica contrappuntistica, e la trasposizione in chiave "moderna", rimarcano la simbologia di "orizzonti" nuovi, in quanto visti nell'assieme verticale.
Scusate per i miei sproloqui notturni, ma ciò è quello che ho visto, o piuttosto sarebbe meglio dire sentito e letto.

Un saluto a tutta la lista.

"Forse si muore perché non si sogna abbastanza..."
F.P.

ombra

Thursday, April 13, 2000

giovedì 13 aprile 2000 22.53 - A baglioniml@egroups.com
Oggetto: Stereofonemi


Qualche anno fa, girovagando per le contorte vie del centro di Palermo, intravidi a distanza una parete piena di coloratissimi poster; attirato da quel turbinio di tinte, mi avvicinai, e, ricordo ancora come fosse ieri, rimasi di stucco. Ogni stampa era un concentrato di puntini, che, susseguendosi l’un l’altro, secondo un’apparente casualità, davano origine ad un tappeto sfavillante di sfumature. Guardai e riguardai, cambiai prospettiva, sbirciai l’autore, ed infine liquidai il tutto, secondo una consuetudine comune, con l’espressione: “bah, sarà l’ennesima opera folle dell’artista di turno”. La mia disordinata passeggiata continuava in altre direzioni, e, intercalata da numerosi flash back, si intingeva di scontri tra la mia istintiva propensione alla semplificazione e l’impavida esigenza di capire. Mi decisi; dissi ad un paio di amici che mi accompagnavano di attendere, tornai indietro, mi soffermai su quei graffiti inconsulti, ed infine chiesi: “coso sono?” a rispondere fu una voce sottile, apparentemente distratta: “autostereogrammi!”, chiusi lì la giornata, e nell’arco di due giorni ebbi accumulato tanti libri sull’argomento che mi ci vollero altrettanti giorni per capirne qualcosa.
L’autostereogramma è una composizione grafica, realizzata al computer, che lascia intravedere il reale soggetto solo dopo aver perso, ed infine trasposto, il nostro normale modo di focheggiare gli oggetti e di intendere le prospettive. Un’insensata serie sterminata di puntini colorati apre lo scenario ad immagini a più dimensioni dove si “vedono” figure assolutamente dinamiche, affascinanti e coinvolgenti.
L’ultimo album di Claudio mi sembra composto da autostereofonemi, e il primo impatto con tale musica è stato altrettanto difficile al pari di quel giorno di cui vi ho raccontato.
Nelle interviste precedenti all’uscita dell’album, Claudio ha accennato a questo “nuovo” modo di comporre ed arrangiare, in cui “la musica non dice, ma suggerisce”. Più linee melodiche, apparentemente indipendenti, dall’andamento orizzontale, che nell’istante creano accordi ben precisi, e riconducono alla tipica verticalità. Una musica che transita per più livelli comunicativi, che utilizza codici inconsueti, e che restituisce tutta la sua magnificenza tramite un ascolto nuovo, diverso nelle prospettive, e atipico, come il percorso verticale del nostro viaggiatore.
Ricordate “L’attimo fuggente”? Non ascoltiamo Claudio adagiati su di un banco, saliamoci sopra, liberiamo le nostre remore, e viaggiamo “rischiando”, solo così il viaggio sarà “vero”, reale o virtuale che sia.

ombra